La lunga attesa dell'angelo
.. un attimo prima che agosto finisca, tre fiammiferi ad illuminare questo momento di passaggio...
La notte di San Lorenzo sono riuscita -dopo un numero imprecisato di anni che non mi accadeva- a vedere una stella cadente. A dire la verità, i precedenti avvistamenti si perdono proprio nelle nebbie dell’infanzia. Potrà forse apparire retorico, ma questo è uno dei ricordi più belli che riporto a casa con me da queste vacanze.
I Fiammiferi di agosto si accendono proprio a partire da questa luce.
Franz von Stuck, Stelle cadenti, 1912
Ce ne stavamo sdraiati sulla sabbia, gli occhi puntati su di una porzione di cielo miracolosamente non illuminata dalle tante luci, senza troppe speranze. Senza troppa convinzione, trascinati più che altro dall’entusiasmo di Erri e della sua amica Lara.
C’è voluto un po’, prima di arrendermi a questa posizione supina, prima di riuscire a prendermi e a gustare questo stare distesa, a guardare il cielo. Semplicemente stare, in attesa di qualcosa d’incerto e d’incontrollabile.
Ad un certo punto, è un po’ come se qualcosa si fosse ammorbidito nello sguardo, rendendolo meno focalizzato, ma più ricettivo. Un po’ come se -rinunciando a cercare di vedere qualcosa- emergesse pian piano la possibilità di mettersi realmente in attesa.
… forse accade così anche nella vita: trovare, quando smettiamo di cercare, per dirla con Bion, quando riusciamo a stare “senza desiderio”.
Il finale già lo conoscete: dopo un tempo che non sarei in grado di quantificare -forse perché sospeso tra il sogno e il reale- eccola la nostra stella cadente! Una scia luminosa che ho avuto l’impressione di cogliere grazie a un colpo di fortuna, come se -al momento giusto- mi fossi ritrovata a spostare lo sguardo di lato, senza sapere perché.
Cercare di vedere le stelle cadenti si è rivelato per noi un pretesto per fermarci e metterci in una “posizione ricettiva”, sospendendo l’azione; quell’azione a cui- anche nel tempo della vacanza- spesso diviene difficile rinunciare, dentro la paura di entrare in contatto con una dimensione di vuoto che può rivelarsi destabilizzante.
L’emozione suscitata dalla visione della stella cadente ci ha riportato in contatto con una parte bambina, custode del sentimento di meraviglia e della possibilità d’incantarsi, senza avere paura di perdere tempo, perché -anche se non avessimo visto la nostra stella- avremmo comunque guadagnato il privilegio di un tempo speso a guardare il cielo notturno, in una notte di mezza estate al mare.
Coltivare un sentimento di meraviglia nel quotidiano credo abbia a che fare anche con il riconoscersi la possibilità di fermarsi e prendersi degli spazi -anche piccoli- in cui non aver paura di perdere tempo.
Savasana
Anche questa estate le pratiche di Spazio Celeste, profilo Ig @spazio_celeste, sono venute in vacanza con me, aiutandomi a ricavare dei piccoli momenti in cui riprendere contatto col mio corpo, attraverso lo yoga, il movimento sensibile e la meditazione.
Scrivo “riprendere contatto con il mio corpo” e mi rendo conto di quanto possa essere riduttiva questa espressione, di quanto rischi di evocare la fantasia di una scissione mente-corpo, quando invece questo “tornare al corpo” è un modo per ritrovare, rinsaldare una connessione col sentire dentro una visione larga che questi due piani li tiene assieme.
In una di queste pratiche, Celeste ricordava come lo Savasana -vale a dire la fase di rilassamento finale, in posizione supina- dovrebbe costituire un quarto del tempo totale della pratica. Un tempo di rilascio ed abbandono, in cui lasciar decantare il “lavoro corporeo”, prima di concludere la pratica e tornare alle proprie attività quotidiane.
Un tempo, quindi, tutt’altro che residuale o accessorio.
Non so quanto il mio sentire sia condiviso, ma nella mia esperienza il confronto con Savasana -che in sanscrito significa “posizione del cadavere”- mi ha restituito, facendomelo sperimentare sul piano corporeo, quanto possa essere complesso e non scontato rilassarsi e abbandonarsi veramente al suolo, consegnando alla terra il proprio peso.
Rilassarsi è una lunga e profonda espirazione che, come un’onda, investe tutto il corpo.
Rilassarsi è un atto di fiducia. A volte, è una possibilità che si costruisce nel tempo, accogliendo con pazienza le proprie resistenze, mentre la pratica piano le ammorbidisce e l’espirazione si dilata.
Punto di partenza di questo processo è come sempre il sentire, portando l’attenzione sul corpo.
Potremmo esser certi di essere capaci di rilassarci, darlo per scontato sul piano razionale, ma -magari proprio in Savasana- accorgerci di una resistenza, avvertire un’irrequietezza, un desiderio di liquidare quanto prima questo momento, che si rivela, a ben vedere, più impegnativo del resto della pratica.
Questi pensieri su Savasana ci riportano sulla spiaggia delle stelle cadenti e… nel 1961, in un giardino londinese una notte d’inizio primavera…
Lost in translation
Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con la radice nel suolo
che succhia minerali e amore materno
per poter brillare di foglie ogni marzo,
e nemmeno sono la bella di un’aiola
che attira la sua parte di Ooh, dipinta di colori stupendi,
ignara di dover presto sfiorire.
In confronto a me, un albero è immortale
e la corolla di un fiore non alta, ma più sorprendente,
e a me manca la longevità dell’uno e l’audacia dell’altra.
Questa notte, sotto l’infinitesima luce delle stelle,
alberi e fiori vanno spargendo i loro freschi profumi.
Cammino in mezzo a loro, ma nessuno mi nota.
A volte penso che è quando dormo
che assomiglio loro più perfettamente–
i pensieri offuscati.
L’essere distesa mi è più naturale.
Allora c’è aperto colloquio tra il cielo e me
e sarò utile quando sarò distesa per sempre:
forse allora gli alberi mi toccheranno, e i fiori avranno tempo per me.
Sylvia Plath, 28 marzo 1961
(Traduzione di Anna Ravano)
Dentro una logica di tipo libero associativo, mi sono tornati in mente i versi di questa celebre poesia di Sylvia Plath, tratta dalla raccolta postuma Crossing the water: transitional poems del 1971.
Un verso in particolare:
L’essere distesa mi è più naturale.
It is more natural to me, lying down
Rispetto alla resistenza che descrivevo prima, la Plath racconta di un desiderio a “essere orizzontale”.
Essere… non stare orizzontale.
Chi conosce Lo Spazio Vago lo sa: come psicoterapeuta - e appassionata di poesia- la parola poetica diviene per me un pretesto su cui risuonare e invitare ad un’implicazione sul piano emozionale l’altro, senza però smarrire un ancoraggio al senso e al contesto della poesia, per non rischiare di tradirlo.
Le poesie di Sylvia Plath mi fanno pensare ai racconti di certi sogni perturbanti; mi pare riduttivo forzarne la lettura in una direzione fattuale, schiacciata entro i soliti elementi biografici della malattia mentale e del suicidio.
La dimensione verticale e quella orizzontale, dentro una lettura simbolico-affettiva rimandano al pensiero e all’emozione, al controllo e all’abbandono, alle fantasie di capire razionalmente e, viceversa, ritornare ad uno stato indifferenziato di comunione e fusione col tutto.
Sylvia Plath è una poeta alla quale non mi stanco mai di tornare, dentro una ricerca che via via si arricchisce di nuovi elementi.
Di recente ho trovato un contributo di un’altra importante poeta -Amelia Rosselli- intitolato Istinto di morte e istinto di piacere in Sylvia Plath, contenuto in Trasparenze -supplemento non periodico a “Quaderni di poesia”, volume 17-19 2003.
Amelia Rosselli ha tradotto una scelta di poesie della Plath, contenute nel volume a cura di Gabriella Morisco (che a sua volta ha tradotto un gruppo di poesie) Le muse inquietanti e altre poesie, uscito nel 1985 per Mondadori editore.
Il volume purtroppo non è di facile reperibilità, ma si trova ancora qualche copia usata.
Intenzione della Rosselli è stata quella di restare il più possibile aderente al testo -non soltanto sul piano del contenuto, del significato, ma anche della musicalità del verso- al fine di non tradirlo e lasciarlo brillare nella sua autenticità. Per questo le sue traduzioni sono così preziose.
Nelle parole della Rosselli ritrovo un vertice osservativo inedito -e controcorrente- in cui mi riconosco e che trovo importante riportare in figura:
Potremmo studiare quanto ci pare l’adolescenza, le lettere e la biografia della Plath, senza mai trovare altro che “specchi” doppi e deformanti. Parla più chiaro il suo verso, ed è più onesto. Che si smetta d’insistere sulle poesie intitolate Papà, Lady Lazarus, Lesbo, Orlo, Morte & C., Tre donne (dramma per radio), che sono oramai da tutti scelte in una specie di tardiva frenesia per lo psicologico, l’orrido, il privato, la causa nascosta; e si ricordi invece che tutte le migliori poesie della Plath hanno anzi per titoli frasi o vocaboli poeticamente neutri o ambigui, come Il giardino del maniero, Cime tempestose, Autunno del ranocchio, I campi di Parliament Hill, La cornacchia nel tempo piovoso, Apprensioni, Mistica, Amnesiaco, Ariel, La luna e il tasso, Piccola fuga. Già dai titoli e nei loro temi sottintesi, s’indovinerebbe che la Plath è mistica e allo stesso tempo concreta nelle metafore, come nel suo secco musicale linguaggio, degna seguace di Shelley e Keats, o di Blake e della Dickinson…
(Amelia Rosselli, “Istinto di morte e istinto di piacere in Sylvia Plath)
Questi Fiammiferi si concludono con una poesia della Plath del 1956, La cornacchia nel tempo piovoso, presente nella sua prima raccolta Il colosso e altre poesie, del 1960, che grazie ad Amelia Rosselli ho conosciuto.
Appena l’ho letta, ho sentito che -nonostante non si parli di rientri, di settembre che arriva e di riprese- non c’erano parole migliori -e opportune- a cui affidare la conclusione di questi Fiammiferi.
La cornacchia nel tempo piovoso
Lassù sul rigido ramoscello
Si curva una nera cornacchia bagnata
Che aggiusta e riordina le sue piume nella pioggia.
Non m’aspetto un miracolo
O un incidente
Tale da infuocarmi la pupilla
Nell’occhio, né ricerco ancora
Nel tempo sconnesso un qualche disegno,
Ma lascio cadere le foglie macchiate così come capita,
Senza cerimonie, o portenti.
Benché, lo ammetto, io desideri,
Occasionalmente, un qualche responso
Dal cielo muto, in verità non posso lamentarmi:
Una qualche luce non primaria potrebbe ancora
Sbalzare incandescente
Dal tavolo di cucina o dalla seggiola
Come se un ardere celestiale prendesse ogni tanto
Possesso di questi oggetti così ottusi
Consacrando così un intervallo
Altrimenti inconseguente
Concedendo larghezze, onori,
Perfino amore. Io ora cammino, comunque,
Attenta (potrebbe capitare
Perfino in questo paesaggio noioso, rovinoso); scettica
Benché politica, ignorante
D’un qualsiasi angelo che scegliesse d’avvampare
D’un tratto al mio lato. So soltanto che una cornacchia
Che riordina le sue piume può luccicare a tal punto
Da sopraffare i miei sensi, forzare
Le mie palpebre, e concedere
Una breve tregua dalla paura
Della neutralità completa. Con un po’ di fortuna,
Marciando testarda attraverso questa stagione
Di stanchezza, io potrò
Raccozzare assieme un contenuto
Di qualche genere. Avvengono miracoli,
Se siamo disposti a chiamare miracoli
Quegli spasmodici trucchi di radianza. L’attesa è ricominciata
La lunga attesa dell’angelo,
Di quella sua rara, rarefatta discesa.
Sylvia Plath
Sylvia Plath legge "Black Rook in Rainy Weather"
Grazie per aver dedicato del tempo alla lettura di Fiammiferi, se hai voglia di condividere le tue risonanze, ti leggo e rispondo con piacere.
Se hai piacere di sostenere questo progetto, aiutami a farlo conoscere.
Ci ritroviamo qui il 28 settembre con altri fiammiferi da accendere e -quando vuoi- su Instagram su @lospaziovago.