Qui, sotto questo ramo, puoi parlare d'amore
Questo mese vi racconto qualcosa di un libro che, con la sua intensità, ha accesso tutti e tre i fiammiferi. Ne parliamo, come sempre, lasciandoci vagare, senza paura di perderci...
Sono tante le ragioni che motivano il mio interesse per gli inizi, ma fra tutte, oggi mi piace ricordarne una apparentemente periferica: l’indicazione di un mio professore universitario, appassionato di cinema, a prestare molta attenzione alla scena iniziale dei film.
Non a caso, uno dei suoi principali oggetti
di riflessione in ambito clinico è stato proprio il setting, e di conseguenza, la fase istituente di una relazione terapeutica, ma… come sempre, questa è un’altra storia.
Tornando agli inizi, io questa sua indicazione l’ho trasferita -quasi senza rendermene conto- anche sui libri.
Non tanto soffermandomi da subito sull’incipit, ma avvertendo il bisogno di tornarci a lettura conclusa, quando il testo mi ha agganciata e questo tornare indietro è un modo per restare ancora un po’ in sua compagnia. Farlo durare.
Il libro di cui vorrei provare a raccontarvi qualcosa, in questo fiammifero di aprile, è “L’invincibile estate di Liliana”, della scrittrice messicana Cristina Rivera Garza, edito da edizioni Sur.
È un libro di cui si è detto e scritto tanto, inserito dal New York Times tra i libri più rilevanti del 2023.
Difficile -mi sono detta- non produrre una ridondanza. Finire per scrivere qualcosa che -per quanto sensato, interessante, doveroso?- non sia stato già scritto e riscritto.
Però io di questo libro vi volevo parlare!
Provo a farlo andandomene per stradine laterali, in cerca di tracce, indizi che mi hanno emozionata e interrogata, al di fuori della strada principale.
Inizio
“L’invincibile estate di Liliana” inizia con i versi di una poesia, “Límite” di Rosario Castellanos.
Qui, sotto questo ramo,
puoi parlare d’amore.
Oltre c’è la legge,
la necessità,
Il percorso della forza,
la riserva del terrore.
Il feudo del castigo.
Oltre, no.
29 anni, tre mesi, due giorni, dopo il femminicidio di sua sorella minore Liliana, allora ventenne, Cristina Rivera Garza sente che è arrivato il tempo per riprendere in mano la storia di sua sorella.
Scrivo “riprendere in mano” perché è un’espressione che evoca l’idea di un contatto, di una ricerca che ha in sé qualcosa di materico, di fisico. Penso alle scatole che custodiscono le cose di Liliana, riposte sopra l’armadio, aperte dopo quasi trent’anni.
Penso a come la scrittura riesca talvolta nel miracolo di raccontare il vuoto, l’assenza, la perdita, facendo emergere una presenza, restituendo corpo e voce a figure, luoghi, situazioni del passato. Un po’ come se avesse il potere di convocarle.
Penso alle voci di Liliana e di Cristina che si alternano, si sfiorano, nel corso della narrazione, accompagnate e sostenute dalle voci di amici e famigliari, quasi a costituire un coro.
Liliana, brillante studentessa di architettura aveva anche una relazione molto intima con la scrittura. Scriveva su quaderni, e fogli volanti. Scriveva per se stessa e scriveva lettere alle amiche, alla sorella, ai famigliari e ai ragazzi che frequentava.
(Siamo nella seconda metà degli anni ‘80… si scriveva ancora a mano, al più con la macchina da scrivere, e la comunicazione a distanza passava ancora attraverso il telefono o le lettere.)
Cristina conduce una paziente e sensibile opera di analisi e organizzazione di questo materiale -non sempre datato- muovendosi sul bordo che separa le parole dal non detto, il nero della parola scritta, dallo spazio bianco del silenzio.
Cristina restituisce a Liliana la sua voce, scegliendo di inserire nella narrazione le parole della sorella, senza intervenire in alcun modo, lasciando che lei parli per se stessa, lasciando che si riveli in tutta la passione, il coraggio, la delicatezza, le ombre, la vitalità, le contraddizioni della sua giovinezza.
Le sue parole sono riportate in un carattere tipografico diverso, che si ispira proprio alla sua calligrafia.
Dicevo che il libro inizia con i versi di una poesia che evoca l’idea di uno spazio protetto in cui è possibile “parlare d’amore”, nonostante tutto, mi verrebbe da dire.
“Nonostante” non significa rimuovendo tutto il resto, producendo una scissione tra un Dentro e un Fuori, ma scoprendo “nel bel mezzo dell’odio, un invincibile amore”.
L’invincibile estate
Il titolo del libro rimanda alla celebre poesia di Albert Camus, pubblicata nel 1954, nota come “l’invincibile estate” (non sono certa abbia un titolo).
Il classico testo talmente noto da rischiare di non essere più letto davvero.
Ammetto che è praticamente la prima volta che mi pare d’incontrarlo veramente. Eccola:
Mia cara,
nel bel mezzo dell’odio
ho scoperto che vi era in me
un invincibile amore.
Nel bel mezzo delle lacrime
ho scoperto che vi era in me
un invincibile sorriso.
Nel bel mezzo del caos
ho scoperto che vi era in me
un’invincibile tranquillità.
Ho compreso, infine,
che nel bel mezzo dell’inverno
vi era in me
un’invincibile estate.
E che ciò mi rende felice.
Perché afferma che non importa
quanto duramente il mondo
vada contro di me,
in me c’è qualcosa di più forte,
qualcosa di migliore
che mi spinge subito indietro.
Mi sono soffermata in particolare sull’aggettivo “invincibile” che qui -proprio come nel libro di Cristina Rivera Garza- non vuole evocare dimensioni trionfalistiche, onnipotenti, o scenari bellici, quanto piuttosto l’idea di qualcosa che r-esiste e che chiede di essere riconosciuta, nutrita e sostenuta.
Qualcosa che, alle volte, ha bisogno di lunghi tempi di gestazione silenziosa, ma che ad un certo punto riemerge.
Come un germoglio.
Come la speranza.
Come una presenza che piano riprende forma e consistenza.
Come una fiammella che s’intravede nel buio più fondo.
Le parole per dirlo
Trent’anni, dicevamo, prima che la storia di Liliana e della sua uccisione rimasta impunita perché il suo assassino, Angel Gonzales Ramos, si è sottratto alla giustizia, potesse essere raccontata.
Mai come in questo caso, sottolinea l’autrice, è stato necessario trovare le parole per dirlo. Parole inedite -in primis femminicidio- che permettessero di dar voce ad una narrazione altra, rispetto alla retorica dell’omicidio passionale.
Una narrazione capace di liberare Liliana -e con lei tutte le altre donne uccise- dalla passività e dai fantasmi della colpa e della vergogna, che incombono sul ruolo della vittima.
L’assenza di parole per dirlo aleggia anche negli scritti di Liliana.
S’intuisce -sempre di più- la sua esasperazione, l’ambivalenza dei suoi sentimenti, l’inquietudine, la paura, in un crescendo drammatico che racconta tutta la difficoltà di svincolarsi dal controllo soffocante esercitato da Angel e dalle sue pressioni.
S’intuisce, eppure Liliana, così a suo agio con le parole, in questo caso non riesce, non può trovarle, perché non esistono. Non esistevano.
Anche le persone della sua vita, nonostante la confidenza, la vicinanza, non possono vedere. Accorgersi di quella che ad un certo punto diviene la cronaca di una morte annunciata.
Ma -e spero di essere riuscita a portarlo in figura- questo è anche un libro pulsante di vita, nel suo riuscire a restituire consistenza e complessità alla figura di Liliana, facendoci sentire l’intensità del suo desiderio -nell’accezione più larga del termine- la sua fame di vita. I suoi sogni. È anche un tributo d’amore, un tentativo di “riparazione” da sorella, a sorella.
… quando avere le parole per dirlo non basta
“L’ultima estate di Liliana” mi ha riportato alla mente alcune delle storie che ascolto nella stanza della terapia, storie in apparenza meno drammatiche, ma dalle quali emerge la difficoltà di riconoscere e prendere atto realmente della disfunzionalità di certe relazioni, chiamando le cose col loro nome.
Quand’è che l’attaccamento alla propria compagna si trasforma in possesso, in controllo soffocante? Quand’è che una modalità relazionale può essere definita violenta?
Il fatto che oggi disponiamo di un vocabolario per identificare certe dinamiche relazionali tossiche, il fatto che la questione del femminicidio sia riconosciuta come un tema drammaticamente attuale, certamente ci ha permesso di fare dei passi avanti sul piano della consapevolezza, ma… molto spesso “avere le parole” non basta.
Sarebbe sufficiente se funzionassimo in modo razionale, se non esistessero l’inconscio e i meccanismi di difesa.
È un passaggio difficile, doloroso riconoscere che la propria relazione sia una relazione attraversata dalla violenza.
Difficile chiamare la violenza col proprio nome, accorgersi che si sta scivolando nella trappola della giustificazione delle modalità del proprio partner.
Difficile riconoscere come il proprio limite di sopportazione venga sistematicamente oltrepassato e spinto un po’ più in là, perché tenerlo fermo significa stabilire una frattura tra un Prima e un Dopo.
E non tornare più indietro.
Il lavoro psicoterapeutico, in questi casi, si propone di creare le premesse perché la propria storia possa essere raccontata, attraversando (anche) la paura di un giudizio, e un sottile senso di vergogna.
… alle volte è necessario che sia il terapeuta a pronunciare, per primo, certe parole, un po’ come se la domanda di fondo fosse quella di trovare una legittimazione, una conferma di quanto ancora non si riesce a dire -neanche a se stessi- riflessa nello sguardo dell’altro.
Grazie per aver dedicato del tempo alla lettura di Fiammiferi, se hai voglia di condividere le tue risonanze, ti leggo e rispondo con piacere, qui nei commenti, o via mail.
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Ci ritroviamo qui il 25 maggio con altri fiammiferi da accendere e -quando vuoi- su Instagram su @lospaziovago
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Sì, è un libro di cui si è parlato tanto (ne ho parlato anch'io nella mia newsletter), ma tu hai dato un taglio molto personale e interessante all'analisi. A volte lo psicologo o la psicologa hanno un ruolo fondamentale nell'accendere un campanello di allarme nella mente della paziente, e può salvarla. Magari Liliana avesse avuto allora gli strumenti per capire cosa stava rischiando! Era così sola, mi fa tanta tanta tristezza e rabbia, ho pianto mentre leggevo. Un abbraccio e complimenti per l'articolo, ti seguo con piacere!
Grazie per queste riflessioni ☺️